Chiara Mastroianni, Saleh Kazemi, Bruno Melappioni con Danilo Cannone
6 – 12 maggio 2017 | a cura di Giorgia Basili | Together, Roma
Legato al concetto antropologico di “habitus” da habeo possedere e alla sfumatura di abitudine, abitare vuol significare l’aver consuetudine di un luogo, essere legato a determinati costumi sociali e locali. Indossare un’identità. Così quando il luogo si fonde con la realtà esistenziale, si giunge ad un suo conformarsi come “insieme di persone”, intreccio persefonico di legami persistenti o transitori.
L’intessere relazioni e dinamiche, il creare un bacino culturale di interscambi porta la fisicità del luogo a caricarsi di un valore psichico-mentale, ad assumere un proprio linguaggio in grado di comunicare, di parlare attraverso codici e simboli visivi e giungere in maniera permanente nel cuore di chi vi si insedia.
Le fotografie di Chiara Mastroianni (Palestrina, 1991) sono intrise di umori, alimentate da un calore corporeo irreversibile. Dove l’assenza umana si rivela presenza-permeabile nell’aria, nella grafia delle linee e delle diagonali, nei colori densi ed umidi. Le ombre registrano impronte, le pareti intercapedini. Le nature morte, così meticolosamente orchestrate nella combinazione delle forme nonché negli accordi tonali, sono sinergiche, vivono dell’occhio prensile dell’artista e nelle suggestioni mediate ed immediate. L’ambiente si articola in una sostanziazione proustiana, dove gli oggetti si animano e traggono l’uomo con fascino animale ed ipnotico. Siamo pendenti nella loro rete fattuale.
Saleh Kazemi (Teheran, 1992) registra con la china impressioni fugaci che coagulano sul foglio come in una pellicola fotografica. Una cristalliera fitta di ricami, di gangli, di incontri accidentali. I soggetti ritratti sono sempre “assorti” nella propria attività, colti mentre sorseggiano un tè caldo o un cappuccino, leggono e scrivono, inventano la propria filosofia nei minuti incolmabili d’attesa. Eppure non si distanziano in isole monadiche, interagiscono con ciò che li circonda come fossero tutt’uno con il contesto. Un paesaggio culturale ricco di libri, sapori, di pensieri rarefatti che viaggiano da espressione in espressione, in un testa a testa conviviale. I suoi elementi proliferano quasi per germinazione spontanea, si contaminano, vengono incapsulati in una dimensione parallela, concepita nella mente e vissuta allo stesso tempo. Un arazzo stratificato, un hortus conclusus, le cui linee si impossessano della carne e della materia e ritrovano il piacere di perdersi. Le forme riempiono la superficie, stilizzano in motivi ornamentali da tappeto persiano, senza sfilacciarsi ma tendendo alla coesione.
Ideato appositamente per la mostra, Privacy is not a crime, il lavoro a quattro mani di Danilo Cannone (Roma, 1985) e Bruno Melappioni (Roma, 1950) riflette sull’abitazione come luogo sicuro, che vuole mantenersi integro e non lasciarsi intaccare dalla frenesia instagrammiana dei social-network. Un non-luogo, che fugge la segnalazione e la mappazione satellitare, dove portare avanti la forza del dialogo e della vera condivisione, dove abbassare le difese e togliersi la maschera. I protagonisti dello scatto di Danilo Cannone proteggono il proprio volto con una busta di carta, le fessure per gli occhi tagliate in maniera rudimentale. Il corpo è ghigliottinato ma la privacy è salva. Le mani si cercano per stringersi contro l’invasore. Una maglia saldata dalle mani abili di Bruno Melappioni, che tende la sua corda metallica sulla superficie, costruisce la familiarità ed il senso di conoscenza reciproca. Speculare al disegno di Saleh Kazemi, questa scultura filamentosa si spoglia del dettaglio e della trama per vivere dell’essenza minimale della verità nei rapporti umani, alla ricerca del legame autentico.